Tutte le canzoni di questo album vennero registrate nello studio Stax di Memphis nel mese di dicembre del 1973 tranne “Take good care of her” e “I’ve got a thing about you baby” che risalgono al mese di luglio (sempre nei medesimi studi).
“Good times” rimase per otto settimane in classifica raggiungendo il 90° posto.
Nel 1977 gli venne assegnato il numero RCA AFL1-0475 e poi sarà eliminato dai cataloghi della RCA.
La prima edizione in CD è del 1994 (BMG 07863 50475-2) e sarà ristampato nel 2009 (Sony A761539).
LATO A:
Take Good Care Of Her
Loving Arms
I Got A Feelin’ In My Body
If That Isn’t Love
She Wears My Ring
LATO B:
I’ve Got A Thing About You Baby
My Boy
Spanish Eyes
Talk About The Good Times
Good Time Charlie’s Got The Blues
Di Roberto Paglia
A meno che non si vogliano attribuire colpe specifiche alla copertina del disco, insolitamente cupa ed in antitesi con l’ottimistico titolo, non è difficile individuare le cause dell’insuccesso di “Good times”. L’album arriva nei negozi nel marzo del 1974, in concomitanza con un lungo tour che impegna Elvis per tre settimane, ma nessuna delle nuove canzoni viene inserita nelle scalette dei concerti. Così, il singolo di lancio, “I’ve got a thing about you baby/Take good care of her”, perde l’indispensabile spinta promozionale mentre un brano forte come “My boy”, già highlight della stagione estiva a Las Vegas del 1973 (quindi ben prima della sua effettiva incisione), resta confinato al vinile.
Le probabilità di successo del nuovo lavoro in studio tramontano definitivamente a causa delle mediocri strategie discografiche della RCA che inserisce “Good times” fra “Elvis-A legendary performer, volume 1“, una lussuosa quanto ambiziosa antologia, ed “Elvis recorded live on stage in Memphis”, il terzo disco dal vivo nell’arco di due anni.
Tutto questo per lasciare poi scoperti i restanti sei mesi del 1974, a meno che non si voglia considerare “Having fun with Elvis on stage” un’opera riconducibile allo stesso Elvis.
Alla fine, il #90 in classifica, penalizza in modo deprimente un album veramente bello e ricco di spunti di rilievo.
Se “Elvis now” ed “Elvis [The fool album]” mancano di coerenza temporale, se in “Raised on rock/For ol’ times sake” l’ispirazione è discontinua, Good times” appare immediatamente un’opera perfettamente a fuoco che si mantiene su livelli elevati dall’inizio alla fine. Anche gli episodi musicali inizialmente meno appariscenti fanno facilmente breccia nei cuori degli ascoltatori e, soprattutto, si rivelano parti essenziali di un insieme.
Realizzato attingendo a piene mani dalle felicissima session del dicembre 1973, fatta eccezione per le due canzoni del già citato singolo, l’album riflette l’immagine di un artista al meglio delle proprie possibilità che affronta con rinnovato entusiasmo la sua professione. In “Good times” troviamo il consueto “something for everybody“, una costante nella produzione Elvisiana, che (va sottolineato) non è frutto del calcolo, della speranza di accontentare tutti, ma è piuttosto il risultato della genuina propensione di Elvis a cantare quanto stimolava la sua sensibilità artistica, indipendentemente dal genere affrontato. In questo senso si potrebbe discutere all’infinito su quanto lui avesse bisogno di attingere da altre fonti compositive, magari più prestigiose, e questo è certamente un aspetto della sua parabola da non sottovalutare e da approfondire. Ma è in ogni caso evidente che interpretando brani come TAKE GOOD CARE OF HER e GOOD TIME CHARLIE’S GOT THE BLUES che gli permettevano l’introspezione personale, o TALK ABOUT THE GOOD TIMES e I GOT A FEELIN’ IN MY BODY che gli consentivano l’immersione nel ritmo, lui ritenesse di avere a disposizione esattamente quanto occorreva per poter dare libero sfogo alle proprie emozioni, per tradurle nel linguaggio universale della musica.
La mancata collaborazione di Elvis con tanti grandi nomi del rock che non aspettavano altro che scrivere e suonare per lui, la sua totale impermeabilità al mondo esterno, hanno senz’altro precluso interessanti ed imprevedibili sviluppi per la sua carriera, ma non inficiano il valore di un disco di grande qualità come “Good times”.
Si parte con TAKE GOOD CARE OF HER, la canzone più crudamente autobiografica fuoriuscita dalle sfortunate sedute di registrazione del luglio 1973, e non è difficile individuare il filo, tutt’altro che sottile, che la lega (al pari di FOR OL’ TIMES SAKE) ai giorni di Hollywood nel marzo 1972. Elvis è in mood decisamente rassegnato perché le ferite sentimentali determinano repentini sbalzi d’umore e contraddittori punti di vista, ed asseconda uno stato d’animo che potrebbe essere radicalmente diverso il giorno seguente. Ma in attesa del domani, i continui “abbi cura di lei” enfatizzati dall’abbondante impiego di archi e coro, indirizzati all’uomo che ha preso il suo posto e pronunciati al termine di frasi come “lei ti ama più di me” o “non mandatemi inviti matrimoniali”, sono davvero tristi per quanto in apparenza esenti da rancore.
La stupenda LOVING ARMS, che offre una delle migliori prove vocali di Elvis negli anni settanta, pare l’ideale seguito della precedente. Le parole del testo sembrano arrivare immediatamente dopo i titoli di coda di una storia d’amore, non esiste la possibilità di cambiare il finale del film, e possiamo soltanto abbandonare la sala con una serie di tardivi e inefficaci “se” nella testa.
La grande versatilità di Elvis,capace di improvvisi e spiazzanti cambi di marcia tanto sul palco quanto in studio, è esemplificata alla perfezione dalla successiva I GOT A FEELIN’ IN MY BODY, un solido R&B a tinte funky, dal testo ricco di citazioni bibliche che scuotono gli animi grazie alla potenza espressiva dell’artista, splendidamente supportato dai suoi musicisti.
Con IF THAT ISN’T LOVE, introdotta dalle coinvolgenti note del piano, Elvis approfondisce i temi religiosi appena lambiti con il chiaro intento di cercare conforto nella fede. E come se stesse riconducendo al Signore il grande talento avuto in dono, la sua prova è magnifica, carica di rispetto e passione.
Non tradisce la sua origine latina la dolcissima e colma di candore SHE WEARS MY RING che offre una visione dell’amore certamente ingenua ed acerba, che stride con quella disincantata e sofferta delle prime tracce di questo album, ma non si può certo biasimare Elvis per essersi riscoperto, almeno per una volta, giovane sognatore nel cuore.
Con il suo passo funky ed il testo semplice ma non privo di allusioni, la seducente e maliziosa I’VE GOT A THING ABOUT YOU BABY, scritta da Tony Joe White e proveniente dalle sessions di “Raised on rock”, offre un piacevolissimo break e dimostra di essere un chiaro singolo da classifica al quale sta molto stretto il #39 raggiunto.
MY BOY evidenzia una volta di più quanto le struggenti melodie francesi si adattassero al particolare momento vissuto da Elvis. Questa versione è straziante quanto bellissima: avere a che fare con parole senza appello quali “per me e tua madre alla fine l’amore è morto”, rivolte al proprio figlio, è angosciante ma non si può fare a meno di ascoltare Elvis fino allo sfumare del brano, vinti da questo autentico dramma.
Subito dopo si viene rapiti dalla malinconica atmosfera di SPANISH EYES che bilancia la lontananza con un filo di ottimismo. Elvis affronta questa nuova avventura dal sapore latino con una semplicità disarmante che è il metro con il quale possiamo misurare la sua arte, mai fine a se stessa.
Quando correndo riusciamo a saltare sul treno della TALK ABOUT THE GOOD TIMES di Jerry Reed, ci troviamo un numero imprecisato di gente che suona, canta e balla e in mezzo Elvis, che snocciola una tirata sulla incomunicabilità e l’incertezza dei tempi moderni senza lesinare rimandi biblici rafforzati dal coro Gospel. Spettacolari gli incroci fra chitarre e piano in poco più di due minuti, che si vorrebbe fossero l’eternità.
Ma Elvis chiude il disco, così come lo aveva aperto, su una nota di profonda tristezza. E se taglia dal testo di GOOD TIME CHARLIE’S GOT THE BLUES la frase chiave “prendo le pillole per alleviare il dolore”, riesce lo stesso a trasmettere il disagio di un uomo che non vuole o non ce la fa ad andare di pari passo con il resto del mondo, arrivando alla fatale conclusione che “qualcuno vince, qualcuno perde”.
Termina così “Good times”, il disco ideale da ascoltare per l’inverno, certi che ci scalderà il cuore mentre, oltre la porta, gli stessi luoghi a noi familiari sembrano d’un tratto essere diventati freddi ed inospitali, mentre il vento e la pioggia vorrebbero entrare.