Tutte le dieci canzoni di questo album vennero registrate nella Jungle Room di Graceland nel febbraio del 1976.
La RIAA lo certificò disco d’oro il 7 ottobre 1977.
Questo album raggiunse il 41° posto in classifica dove rimase per un totale di 17 settimane.
Nella graduatoria degli album Country, invece, fu primo.
“From Elvis Presley Boulevard”, nel 1977, cambiò il numero di catalogo in RCA AFL1-1506.
La prima edizione in CD è del 1988 (BMG 1506-2-R). Sarà riedito nel 1991 con lo stesso numero di catalogo e nel 2009 come Sony A761542.
In Europa, invece, venne pubblicato nel 1993 (BMG 74321-1469-2).
La Follow That Dream Records, nell’ottobre del 2012, pubblicò un doppio CD con i masters e numerose outtakes.
LATO A:
1) Hurt
2) Never again
3) Blue eyes crying in the rain
4) Danny boy
5) The last farewell
LATO B:
1) For the heart
2) Bitter they are, harder they fall
3) Solitaire
4) Love coming down
5) I’ll never fall in love again
Di Roberto Paglia
Ho sempre avuto un debole per le canzoni che Elvis, praticamente costretto dal mancato rispetto dei contratti da lui stesso firmati, incise a Graceland nel febbraio del 1976. Non è difficile individuare i motivi di questa passione, considerando che “From Elvis Presley Boulevard, Memphis, Tennessee” fu il mio secondo album del Re. Questioni affettive, certo, perché con questo disco ci sono cresciuto, ma non è tutto qui. L’Elvis che le incise non è quello del ’68 Comeback o delle session all’American Sound Studio di Memphis, né, per dirla tutta, il cantante che si recò negli studi della Stax sul finire del 1973 o ad Hollywood nel marzo del 1975, ma questo album contiene un pugno di canzoni caratterizzate da una bellezza sofferta e talvolta nascosta, disperatamente voluta e faticosamente raggiunta. Sotto questo punto di vista soddisfa ampiamente i miei gusti e le mie aspettative, perché in ambito musicale, ma non solo, mi attraggono le imperfezioni che rasentano l’ingenuità, l’evidenza dei limiti di chi crea e l’esigenza di mettersi a nudo, di vuotare il sacco. Magari cantando, per i motivi più disparati e infischiandosene delle leggi di mercato. Certo, dato il suo status di leggenda vivente Elvis poteva permettersi di farlo e tanti altri cantanti no, e se lui era recalcitrante a recarsi a Nashville, lo studio di registrazione si materializzava come per incanto nella Jungle Room.
Tuttavia, la preferenza che in quei giorni di febbraio egli accordò, ancora una volta, a composizioni che gli permettevano di farsi del male, il suo rifuggire ostinatamente la possibilità di costruire un successo da classifica – per quanto un paio di tentativi furono fatti – lo assimilano più a un artista alle prime armi che suona in cantina e commette una serie di errori piuttosto che a un consumato professionista. Questo modo di intendere le cose, il disinteresse manifestato nei confronti della propria carriera – che pure era stata e continuava ad essere la più prestigiosa del firmamento musicale – lo rende ai miei occhi e alle mie orecchie tremendamente affascinante.
In quanto Elvis canta a Graceland c’è anche una certa indolenza di fondo, quasi stesse dicendo ai discografici, al suo disilluso produttore e al manager ormai a corto di strategie qualcosa come “volete che canti? Beccatevi questo e fatevelo bastare”. Forse. Più realisticamente Elvis non riusciva a mantenere la concentrazione in studio, un po’ per il peso di tanti anni passati a spingere sull’acceleratore, un po’, soprattutto, a causa delle sue deteriorate condizioni psicofisiche. Però, quando si trattava di registrare, seppure in una stanza di casa sua, tornava ad essere Elvis Presley alle prese con una manciata di brani. Niente di meno. Che poi questi provenissero dalle solite fonti, che i compositori di rango venissero tenuti accuratamente alla larga, che lo stesso Elvis continuasse a presentarsi in studio impreparato scegliendo i pezzi da incidere pescando da un mucchio di demo è storia arcinota, ma lui restava pur sempre il numero uno. Ecco perché nel corso degli anni abbiamo sviscerato i pezzi che vanno a comporre il puzzle “Boulevard” dedicando ad essi innumerevoli ascolti, piuttosto che bollarli aprioristicamente come la deriva di un re che desidera soltanto abdicare.
Oltre a ciò, non bisognerebbe mai sottovalutare Elvis Presley, e il “Boulevard” è puntellato da una coerenza di fondo che lascia presagire una precisa idea di partenza e l’intenzione di muoversi in direzione della meta prestabilita. Insomma, si ha l’impressione che a dispetto della natura dilettantesca delle sedute di registrazione Elvis stia facendo sul serio, che sia determinato ad affossare l’amore bollandolo come elemento nocivo. Che stia scrivendo il suo testamento sentimentale e abbia scelto un pezzo come “The Last Farewell”, così distante da quanto cantava abitualmente, solo perché parla di abbandono, quindi perfetto a prescindere. In conclusione, sembra che lui stia portando a termine, con un finale apocalittico, il percorso intrapreso quattro anni prima. Gli elementi ci sono tutti. Brani che rimandano alla fine del suo matrimonio, testi che azzerano la speranza e un anestetizzante tappeto di archi. Solo che in questo album tutto è portato al limite. Si, sembra che il “troppo” faccia parte di una precisa scelta stilistica, che serva a dare forza a quella che brano dopo brano assume i contorni di una resa dei conti. Con sé stesso, più che con gli altri.
Ecco dunque arrivare “Hurt” (…adesso vuoi un altro, e questo mi spezza il cuore…) che fin dalle prime note Elvis sembra prendere come una sfida da portare a termine ad ogni costo, perché desidera far sapere a tutti – senza pretendere aiuto – che le ferite non gli mancano. Il periodo non è dei migliori e il modello di partenza (Roy Hamilton) piuttosto impegnativo, ma in qualche modo ce la fa. Subito dopo “Never Again” (… se non riesco a smettere di amarti, cosa posso fare? Tu sarai libera, ma io dove sarò?…) malinconico manifesto in bianco e nero di una sconfitta sentimentale, e poi lo stanco incedere di “Blue Eyes Crying in The Rain” (…quando ci siamo detti addio con un bacio e ci siamo separati, sapevo che non ci saremmo mai più visti…) per mezzo del quale Elvis sembra voler trascinare gli ascoltatori sulla tortuosa strada che sta percorrendo: “Dite che siete con me? Allora seguitemi…”. Poi la meravigliosa intimità di “Danny Boy” (…ma se arriverai e tutte le rose staranno morendo, e io sarò morto, e potrei ben esserlo…) tristissimo capolavoro del disco che non avrebbe sfigurato nemmeno su “From Elvis in Memphis”, per quanto è bello. Di “The Last Farewell” (…perchè tu sei bellissima ed io ti ho amata teneramente, più teneramente di quanto le parole possano dire…) abbiamo già detto. Se a qualcuno sembra stilisticamente lontana da Elvis, e lo è, bisogna tener presente che per quanto sta costruendo nella Jungle Room il fine giustifica i mezzi.
Con “For The Heart” (…posso giocare ma non posso vincere, e il tempo sembra vago per un cuore che non riesce ad amare nessun altro se non te…) Elvis fa un break – anche se a ben vedere il testo ha poco di allegro – che sembra quasi una concessione ai discografici, gettando in mare un salvagente prima della tempesta emotiva in arrivo. Si parte con “Bitter They Are, Harder They Fall” (…una casa costruita per due non è una casa, quando a viverci è uno, uno solo e triste…) e si prosegue con “Love Coming Down” (…ora, ripensando al passato, mi chiedo come ho potuto credere di avere cose più importanti da fare…). Inutile concentrarci sulle melodie, anche belle, che caratterizzano questi brani, perché esse sono funzionali ai testi. Fosse stato per Elvis, probabilmente, avrebbe fatto qualcosa di molto simile a “Where Does Love Go” di Charles Boyer. Con “Solitaire” (…Una piccola speranza va in fumo, proprio come era ovvio, era ovvio che accadesse…) Elvis sembra ancora alla ricerca della canzone simbolo della sua vita, ma a dispetto dei tentativi nulla si rivelerà mai più adatto di “My Way”. In chiusura arriva “I’ll Never Fall in Love Again” (…quando ti ho vista fra le sue braccia, piccola, ero distrutto e piangevo…), il classico di Tom Jones. A Elvis non interessa minimamente sfidare l’amico sul campo del “bel canto”, perché la canzone è perfetta per arrivare in fondo al Boulevard: nel 1956, all’inizio della sua spettacolare ascesa, Elvis evocò l’Heartbreak Hotel. Vent’anni dopo lo fece materializzare a Graceland, chiudendo un cerchio.
Quando “From Elvis Presley Boulevard, Memphis, Tennessee” giunge al termine ci ritroviamo come svuotati a fissare la copertina del disco. Curioso… Elvis sembra abbozzare un sorriso. Magari abbiamo immaginato tutto. “Dacci un taglio amico, sono solo canzoni…”. Forse.